03 Sep
03Sep


STUDIO LEGALE ARIELLO


Mantenimento del figlio maggiorenne: il cambio di rotta della Cassazione

Un'innovativa decisione della Suprema Corte smantella una quantità di stereotipi giurisprudenziali, restituendo ai figli centralità e riconoscendo loro piena affidabilità (ord. 17183/2020).


La rilettura dell’art. 337 septies c.c.

Salta immediatamente agli occhi che un simile approccio sembra mettere in relazione quel figlio solamente con il genitore onerato monetariamente, nulla dicendo sugli obblighi dell’altro genitore, che è da intendersi come quello che era stato indicato come “collocatario” prima del raggiungimento della maggiore età. Pertanto il primo dubbio che viene al lettore è: se un figlio, ad esempio studente universitario fuori sede e fuori corso da anni, avesse per motivo di studio cessato qualsiasi tipo di convivenza con entrambi i genitori - e dunque anche con il già “collocatario” - quest’ultimo si sarebbe rivolto alla Suprema Corte per ottenere l’imposizione senza limiti di tempo di un contributo in denaro anche nei propri confronti? Certamente no. Anche perché consolidata giurisprudenza aveva finora concesso al genitore già “collocatario” il diritto di continuare ad esigere il versamento a proprie mani dell’assegno destinato al mantenimento del figlio divenuto maggiorenne, procedendo iure proprio e non ex capite filiorum (ex pluris Cass. 24989/2010). Già questa prima considerazione mostra i gravi limiti dell’attuale prevalente applicazione della legge 54/2006. Il motivo, infatti, per cui quel genitore si sarebbe ben guardato dallo sporgere reclamo sta nel fatto che i suoi obblighi economici si considerano interamente assolti in base agli oneri legati alla convivenza, pur se questa sia di un sol giorno al mese: ciò che conta è essere designati “collocatari”. Ovvero si presume che quel figlio quando era ancora minorenne e in regime di affidamento condiviso non abbia avuto rapporti di convivenza significativi con uno dei due genitori. Come dimostra il permanere non solo nella terminologia, ma anche in fatto e nel riconoscimento di una serie di diritti, del cosiddetto “diritto di visita”.

La stranezza e la non plausibilità di un modello di questo tipo (incredibilmente dominante) acquista la massima evidenza quando quel figlio diventa maggiorenne. A quel punto, infatti, essendo venuto meno l’affidamento con tutti i suoi contenuti, essendo il figlio libero, in quanto maggiorenne, di muoversi tra le abitazioni dei due genitori senza alcuna regola e fuori da qualsiasi prescrizione è in linea di principio, ovvero concettualmente, impossibile definire un genitore “convivente”. Al più “co-residente”, circostanza, però, meramente anagrafica e non sostanziale. Si potrà obiettare che questo vale, tuttavia, solo teoricamente, perché in pratica quel figlio a quel punto avrà probabilmente adottato e consolidato un solo riferimento abitativo. Un’affermazione del genere, indubbiamente di pe sé plausibile, appare tuttavia priva di pregio giuridico (non si costruiscono norme, che devono valere erga omnes, su base statistica) e neppure valida per giustificare una simile applicazione di un affidamento che doveva essere condiviso. Dimostra soltanto le deteriori conseguenze dell’applicazione asimmetrica e sbilanciata di un istituto nato per evitare squilibri nella vita dei figli dopo la separazione dei genitori.


Il principio di autoresponsabilità

Le conclusioni appena accennate trovano poi piena giustificazione in una ampia serie di considerazioni di buonsenso, che invocano non solo principi di equità (ad es., nei confronti nel dovere di non chiedere ai genitori sacrifici sostitutivi di quelli che l’interessato sembra non disposto a compiere) ma anche sostenuti da una ricchissima serie di convincenti citazioni di circostanze nelle quali il diritto fa appello al dovere di essere autoresponsabili. Mediante considerazioni di buon senso si sottolinea che al di sopra dei trent’anni è lecito presumere che un figlio abbia completato la propria formazione nonché abbia avuto il tempo per trovare di che mantenersi. Anche qui, tuttavia, la Corte prende le distanze dalla prassi sostenendo che le ambizioni di un figlio ben possono ridimensionarsi in nome della dignità di una propria autonomia e in nome dell’obbligo morale di non chiedere propri genitori un sacrificio maggiore di quello che si è disposti a fare in prima persona. E dà risposta anche al diffuso alibi dei maggiorenni: non avere trovato una occupazione adeguata alle ambizioni legittimamente coltivate, visti i propri titoli di studio, prendendo le distanze anche da precedenti di legittimità (ad. es. Cass 1830/2011, che subordina la rinuncia al contributo alla "percezione di un reddito corrispondente alla professionalità acquisita"). Dimostrando grande modernità e adeguatezza ai tempi la Cassazione invita il soggetto di cui si sta occupando (ma la tesi è del tutto generale) a ridurre eventualmente “le proprie ambizioni adolescenziali” pur di trovare il modo di auto-mantenersi. Una posizione perfettamente in linea con i recenti negativi interventi sulla automatica corrispondenza dell’assegno divorzile al tenore di vita goduto in costanza di matrimonio. Si tratta, dunque, evidentemente, di un richiamo a principi ispirati a criteri di merito e dignità della persona, in dissenso verso precedenti (e attuali) scelte assistenzialiste: “Ciò conferma come, quando siano di rilievo i concetti del dovere e dell'autoresponsabilità - e non solo quelli del "diritto ad ogni possibile diritto" - dall'assistenzialismo anche il nostro ordinamento giuridico proceda di pari passo con l'evoluzione della società civile, pur corroborando tali principi con l'applicazione razionale e perdurante del principio di solidarietà ex art. 2 Cost.”. Ovvero: “il diritto al mantenimento del figlio maggiorenne … perchè sia correttamente inteso, occorre che la concreta situazione economica non sia il frutto di scelte irragionevoli e sostanzialmente volte ad instaurare un regime di controproducente assistenzialismo, nel disinteresse per la ricerca della dovuta indipendenza economica.”.


Le ripercussioni sull’applicazione dell’affidamento condiviso

Prevedibilmente il nuovo orientamento della Cassazione incontrerà notevoli resistenze, o interpretazioni riduttive, ponendosi in evidente contrasto con posizioni ideologiche, ammantate di pseudosociologia, di una parte della magistratura e della società civile, che mette al centro dei propri interessi la tutela del “coniuge debole”, anche quando questo va a danno del figlio. È interessante notare, a questo proposito, come all’“interesse” dei figli si faccia riferimento – e con grande enfasi - solo fino al momento in cui può essere utilizzato a vantaggio del coniuge debole: ovvero del genitore collocatario. Quando ciò non avviene, ad es. in occasione dei più drastici sradicamenti conseguenti alla volontà di costui di trasferirsi altrove – anche in Siberia - si verifica puntualmente l’opposto, ovvero ciò che andrebbe direttamente a suo vantaggio passa in secondo piano rispetto al danno – si dice - che subirebbe staccandosi dalla sua principale figura di riferimento: il genitore collocatario. E un altro eclatante esempio è fornito proprio dal mantenimento del figlio maggiorenne, per le ragioni appena viste.

A ben guardare, dunque, l’ordinanza, anche se apparentemente sembra penalizzare i figli maggiorenni di genitori separati ponendo un limite temporale al diritto al mantenimento, in realtà in tutte le situazioni ordinarie, numericamente di gran lunga prevalenti, li ricolloca nella posizione di tutto rispetto che compete loro in quanto cittadini a priori affidabili come tutti gli altri e quindi in grado di autogestire le risorse ad essi destinate, così accelerando e facilitando il giusto processo di emancipazione. Dunque, se qualcuno perde dei vantaggi è solo chi non se li merita; ma per tutti gli altri ci sono solo passi avanti. Ad una attenta lettura niente altro vuol dire il principio di autoresponsabilità: è un investimento per il futuro - scommettendo sui giovani - che lo Stato intende compiere, oltre che un atto dovuto se si vogliono evitare discriminazioni contrarie alla nostra Costituzione.

D’altra parte, volendo cercare di dedurre, senza forzature, l’attuale orientamento della Suprema Corte in merito all’applicazione dell’affidamento condiviso quale può emergere dai contenuti dell’ordinanza in esame, si osserva che, pur mancando una diretta presa di posizione, si riscontra nel testo una serie di impegnative affermazioni, appena appena velate dall’inevitabile garbato rispetto per la giurisprudenza precedente. Certamente, quindi, non vi si legge esplicitamente “si è sbagliato nel creare un genitore prevalente”; tuttavia, di questa “prevalenza”, così come di una qualsiasi differenza dei ruoli, non c’è traccia. Anzi. Il rapporto di convivenza del figlio con ciascuno dei genitori, precedente alla maggiore età è considerato irrilevante. L’intera storia che precede la maggiore età sparisce. Ai fini del mantenimento il figlio “nasce” giuridicamente il giorno del suo 18º compleanno e la sua storia futura si svolgerà “a prescindere”. Si è lontani anni luce da quella sorta di intoccabilità dei “diritti acquisiti” dai genitori. Il principio, ripetutamente sottolineato dall’ordinanza, è quello, come già detto, della autoresponsabilità e della conseguente autodeterminazione.

Infine, avere restituito al figlio maggiorenne la gestione del contributo al suo mantenimento - lasciando intuire che in effetti tipicamente dovrebbero essere due, provenendo da ciascuno dei genitori – già di per sé riduce drasticamente l’interesse ad essere indicati come “genitore prevalente”, il che lascia sperare in una significativa riduzione del relativo frequente e acceso contenzioso.

Conclusioni

In sostanza il provvedimento recentemente assunto dalla Suprema Corte rappresenta una pietra miliare nella storia recente del diritto di famiglia, collocandosi fra le tre più importanti decisioni che disciplinano l’affidamento condiviso, insieme alla 16593 del 2009 - che affermava l’irrilevanza della conflittualità tra i genitori ai fini dell’applicazione dell’istituto - e la 23411 del 2008 che, sia pure a denti stretti, riconosceva la priorità della forma diretta del mantenimento e la residualità dell’assegno. Non resta che augurarsi che non seguano ad esso letture distruttive ma, al contrario, rappresenti uno stimolo per allargare ulteriormente il numero dei tribunali che danno costantemente della riforma del 2006 una fedele lettura. In attesa che il Parlamento consegni al paese una sua inequivocabile e definitiva formulazione. Altalex.




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