La circolare Inail n. 13/2020, pubblicata il 3 aprile 2020, ha confermato che i casi accertati di infezione da coronavirus avvenuta in occasione dello svolgimento dell’attività lavorativa sono considerati alla stregua di infortuni sul lavoro.
Si tratta di una previsione che ha suscitato un certo clamore, in quanto è stato forte il malcontento manifestato da molti datori di lavoro, anche sulla carta stampata, che all’indomani della pubblicazione della circolare hanno espresso tutte le loro perplessità in merito a tale disciplina, che andrebbe a gravare gli imprenditori di un carico di responsabilità eccessivo, tale addirittura da rischiare di bloccare le riaperture previste per la fine di maggio.
Urge, a questo proposito, comprendere effettivamente cosa preveda la nuova disciplina.
Il Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 26 aprile 2020 ha imposto l’obbligo di osservanza, in capo a tutte le imprese operative anche nel periodo di lockdown, di un protocollo specifico che indica le misure da adottare per il contrasto e il contenimento della diffusione del coronavirus all’interno degli ambienti di lavoro, contenente, tra l’altro, indicazioni in merito all’igiene e alla sanificazione degli ambienti, alla gestione dei lavoratori sintomatici e a generali regole di sorveglianza sanitaria.
Il datore di lavoro, pertanto, è tenuto ad adottare tali accorgimenti se non vuole rischiare di essere punibile ai sensi dell’art. 40 comma 2 del Codice Penale (reato omissivo improprio). In particolare, se un dipendente dovesse ammalarsi di coronavirus sul posto di lavoro proprio a causa della carenza delle misure di sicurezza anti contagio, il datore di lavoro potrebbe essere chiamato a rispondere in ambito penale per lesioni o addirittura per omicidio colposo.
Le conseguenze, come è facile comprendere, sono senz’altro molto gravi, ma va detto che, a monte, deve sussistere un inadempimento da parte dell’imprenditore che non assuma gli accorgimenti previsti dal protocollo di sicurezza.
Inoltre è fondamentale sottolineare che l’onere della prova in merito al fatto che il contagio sia avvenuto durante l’attività lavorativa trova diversa disciplina a seconda della settore nel quale opera l’azienda.
La circolare Inail citata prevede due diverse situazioni. Per gli operatori sanitari e le “altre attività lavorative che comportano il costante contatto con il pubblico” (ad esempio addetti al front-office, cassieri, personale tecnico non medico operativo presso ospedali), la circostanza che il contagio sia avvenuto durante lo svolgimento delle mansioni lavorative è provabile per presunzione semplice. In altre parole, qualora un lavoratore appartenente a tali categorie dovesse ammalarsi di coronavirus si presume, senza obbligo di dare prova ulteriore alcuna, che il contagio sia avvenuto durante l’attività lavorativa, e il dipendente potrà così godere delle prestazioni Inail come se avesse subìto un qualsiasi infortunio rientrante nella tutela garantita dall’ente previdenziale.
Discorso del tutto diverso per le altre categorie professionali: i dipendenti che non lavorano necessariamente a stretto contatto con il pubblico o con i clienti finali, qualora dovessero ammalarsi di coronavirus dovranno dare essi stessi prova che l’infezione sia avvenuta durante l’attività lavorativa.
Si tratta di una prova senz’altro difficile da fornire, sia in considerazione dei tempi di incubazione del virus (che, potendo arrivare a 14 giorni dal momento del contagio, rendono arduo dare la prova del luogo ove esso sia avvenuto) che dell’effettiva possibilità concreta di stabilire chi possa aver trasmesso il virus, dove e in quali circostanze nello specifico. In ogni caso, per superare dubbi interpretativi (inevitabili, come è facile intuire) l’Inail precisa che si dovrà sempre fare ricorso agli elementi epidemiologici, clinici, anamnestici e circostanziali, utili garantire la piena tutela del lavoratore e, ci sembra corretto aggiungere, del datore di lavoro. Da leggioggi.
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